Guerra, popolo serrato e Resistenza


E poi la gente, perché è la gente che fa la storia

Quando si tratta di scegliere e di andare

Te la ritrovi tutta con gli occhi aperti

Che sanno benissimo cosa fare


Quelli che hanno letto un milione di libri

E quelli che non sanno nemmeno parlare

Ed è per questo che la storia dà i brividi

Perché nessuno la può fermare.

(Francesco De Gregori)

Nel 1940 la provincia di Varese conta circa 410.000 abitanti, dei quali oltre la metà attivi nel mondo del lavoro, in base al censimento del 1936. Con il 66,4% della popolazione attiva occupata nel settore industriale (a titolo di confronto, la media nazionale è del 29,3% e quella della Lombardia è pari complessivamente al 47,5%) Varese è di gran lunga la provincia d’Italia con il maggior numero di lavoratori del settore secondario: 121.886 addetti nell’industria in circa 2.200 imprese e 14.747 nell’artigianato. Il dato è fortemente influenzato dalla partecipazione al lavoro delle donne, oltre 52.000, nella maggioranza operaie nelle industrie tessili.

Uomini e donne inconsapevoli del fatto che molti di loro, nei 5 anni a seguire, avrebbero fatto la Storia.

Il sistema produttivo varesino era già in progressiva trasformazione da alcuni anni: il settore tessile, storicamente caratterizzante l’economia locale, risulta in crisi poiché l’autarchia e le sanzioni internazionali che avevano colpito il paese in seguito alla guerra d’Etiopia, rendono difficili i rifornimenti di cotone dai mercati esteri e limitano l’accesso dei nostri prodotti alle economie più importanti. Si assiste alla chiusura o al ridimensionamento dell’occupazione in molte fabbriche, con il conseguente licenziamento di manodopera, riassorbita dagli altri settori in espansione o, comunque tutelata dalla cassa integrazione che copre solo il 75% della paga base perduta. Le autorità fasciste locali sono in allarme, preoccupate per l’ordine pubblico e per la possibile conseguenza di consenso per il regime, comunque ancora altissimo.

Lo scoppio della guerra spinge invece il settore meccanico, in particolare l’industria bellica diffusa sul territorio varesino non solo per la presenza di grandi stabilimenti aeronautici, con una graduale riconversione della produzione e il massiccio assorbimento di lavoratori proveniente dal tessile, con una riduzione della disoccupazione, che scende all’1% fino alla crisi del ’42.

Il positivo andamento della produzione, tuttavia, non porta miglioramenti nelle condizioni di lavoro degli operai: se le fabbriche erano già prima dello scoppio del conflitto sottoposte ad un controllo pervasivo del regime per isolare gli oppositori ed impedire che si potesse diffondere qualsiasi forma di dissenso, col passaggio all’economia di guerra tale controllo si fa ancora più assiduo e a volte maniacale. Imprenditori e lavoratori, in molte informative alle autorità, vengono dipinti come potenziali sovversivi. Basta una parola detta a mezza voce, un’imprecazione contro la guerra e il carovita, per essere immediatamente schedati. La situazione economica dei lavoratori peggiora rapidamente nonostante fosse stata già provata dalle politiche salariali del regime: nel quinquennio 1936-40 l’aumento dei prezzi, fino al 56%, era stato solo parzialmente compensato da aumenti salariali che, a stento, raggiunsero il 40%.

Con l’entrata in guerra viene disposto il contestuale blocco dei salari e dei prezzi, ma in realtà l’aumento dei prezzi è costante e diventerà insostenibile con l’evolversi della situazione bellica. La paga base di un operaio, in provincia di Varese, è di circa 3 lire, 4 per un operaio specializzato del settore metalmeccanico, mentre per un’operaia difficilmente si arriva a 2 lire, sufficienti a garantire un tenore di vita misero. La situazione si aggrava a seguito dell’introduzione del razionamento che gradualmente si estende a tutti i beni di prima necessità, non solo alimentari. La provincia di Varese, a scarsa vocazione agricola, dipende dai rifornimenti provenienti da altri territori, che si fanno via via più difficili e che neanche gli interventi delle autorità riescono a garantire. L’inflazione galoppa, le razioni vengono progressivamente ridotte e la situazione si aggrava ulteriormente nel corso del 1943 a causa del gran numero di sfollati che comincia a riversarsi sul territorio: circa 150.000, non compensati dalle forniture. I generi alimentari garantiti e a prezzi “calmierati”, non sono sufficienti per il consumo di una famiglia tipo, che è costretta a rifornirsi sul libero mercato o al mercato nero, molto fiorente e a prezzi in alcuni casi 10 volte superiori ai prezzi annonari. Il malcontento si diffonde dunque nelle fabbriche, all’inizio in forma spontanea e localizzata con varie forme di astensione dal lavoro, in parte contro il carovita e in parte conseguenza di episodi in cui le direzioni aziendali non si erano attenute agli accordi per gli adeguamenti retribuitivi. Nel marzo 1943 si verificano anche i primi scioperi diffusi, partiti da Torino e Milano e diffusisi a macchia di leopardo. Il regime interviene, preoccupato che il disagio dovuto a motivi economici possa diventare opposizione politica all’autorità, da un lato facendo pressione sugli imprenditori perché rispettino gli accordi, dall’altro aumentando la repressione e il controllo nei luoghi di lavoro.

Sono i primi episodi collettivi di eroismo nel quotidiano, perché lo sciopero è un reato e le pene, per i colpevoli, sono severe! Il regime ha capito che dietro le rivendicazioni economiche si cela anche l’azione degli attivisti dei partiti clandestini.

Alla caduta del regime esplode la protesta anche nelle fabbriche contro i quadri e gli squadristi fascisti presenti nei luoghi di lavoro, ci si illude che la guerra possa finire presto, ma in realtà nulla è cambiato nel sistema repressivo, coloro che protestano vengono schedati e molti di loro pagheranno successivamente le loro prese di posizione di questo momento. Dopo l’8 settembre la situazione peggiora ancora, drasticamente: le truppe tedesche occupano il territorio e da subito tutta la produzione, agricola e industriale, serve a soddisfare i bisogni dell’occupante per la produzione di armi, ricambi e materiale bellico, vestiti e ogni altro genere di necessità. La congiuntura economica, e di conseguenza le difficoltà dei lavoratori e delle loro famiglie, si fa sempre più drammatica, gli alimenti scarseggiano, le quantità assegnate con le tessere annonarie diminuiscono e la spirale inflazionistica fuori controllo, soprattutto delle merci che si trovano sul mercato nero, fa sì che il divario tra il costo della vita ed i salari reali si allarghi sempre di più. Gli operai sono alla fame. Mia mamma, nata nel 1936 e abitante durante la guerra alla cascina Burattana di Busto Arsizio, ricorda ancora che la nonna, operaia tessile, con estremo coraggio si avventurava di notte nel territorio oggi facente parte del parco Alto Milanese per racimolare qualche frutto da far mangiare ai figli piccoli. La nonna stessa ancora negli anni ’80 ricordava il pane comprato con la tessera annonaria come un “tozzo di pane nero, duro e con dentro la terra”.

Si creano quindi le condizioni per lo scoppio di una nuova protesta operaia, questa volta molto più diffusa e in parte guidata all’interno delle fabbriche dai membri del partito comunista clandestino, che si riorganizza e recluta nuovi adepti. La rabbia popolare diventa rivolta contro il regime e l’occupante, in un moto di resistenza non violenta che affianca e fornisce risorse alla resistenza armata. All’inizio di dicembre del 1943 gli scioperi, partiti da Torino e dalle grandi fabbriche milanesi, dilagano anche nella nostra provincia e coinvolgono anche il bustese e la Valle Olona. Se le forze dell’ordine minimizzano sul numero degli scioperanti, ben diversa è la percezione dell’occupante che interviene anche militarmente nei luoghi di lavoro. I tedeschi individuano i membri delle commissioni interne e i lavoratori promotori della rivolta, sulla base anche delle precedenti schedature. Il 5 gennaio 1944, alla Franco Tosi di Legnano vengono arrestati circa 80 lavoratori, 6 dei quali deportati nei campi di concentramento. Nonostante l’eco della repressione, la protesta non si ferma, consapevole dell’inevitabilità di scatenare la furia dell’occupante e l’episodio più grave nel nostro territorio avviene alle Officine Ercole Comerio di Busto Arsizio: alle prime luci dell’alba del 10 gennaio la fabbrica viene circondata dai mezzi corazzati tedeschi giunti da Milano, sotto la minaccia delle armi sono arrestati i membri della Commissione interna e sei di essi vengono internati a Mauthausen. Tre di loro non rivedranno mai più le loro famiglie ed uno morirà poco dopo il ritorno.

I tedeschi alternano la repressione con la concessione di alcuni miglioramenti salariali, tuttavia inadeguati rispetto ai reali bisogni della popolazione che intensifica la resistenza e la lotta contro l’oppressore.

Le fabbriche diventano il luogo in cui si alimenta il supporto alla lotta partigiana, la crescita di una nuova cultura politica e la consapevolezza che la guerra finirà e che dalle macerie sorgerà una nuova Italia, libera e democratica. Mi piace ricordare a questo proposito atti di eroismo quotidiano messi in atto dalle lavoratrici che, a rischio di gravi conseguenze, dalla fucilazione alla deportazione nei lager, sabotano la produzione di armi destinate alle truppe tedesche: alcune donne della Ercole Comerio hanno raccontato che non inserivano le spolette nelle bombe a mano rendendole di fatto, inoffensive. Lavoratrici, lavoratori e anche imprenditori partecipano attivamente alla lotta partigiana, le stamperie e le tipografie vengono utilizzate per produrre il materiale di propaganda, parte della produzione viene nascosta e inviata alle brigate combattenti, derrate alimentari, armi, vestiti prendono la strada dei monti.

La guerra continua e si avvicina sempre di più ai nostri territori, continuano gli scioperi e si prepara l’insurrezione, il regime vacilla e accrescono la repressione, gli arresti, le torture, le fucilazioni dei partigiani catturati che agiscono nelle città. Il terrore, tuttavia, non piega la rivolta. Nella primavera del 45, finalmente, l’insurrezione generale vede tra i primi atti la difesa delle fabbriche e dei luoghi di lavoro, per impedire ai tedeschi in ritirata di distruggere gli impianti e i macchinari necessari per la rinascita economica del paese.

Purtroppo la maggioranza degli atti quotidiani di resistenza nei luoghi di lavoro rimangono sconosciuti, perché troppo tardi la ricerca storica ha pensato di raccogliere le testimonianze, in particolare delle donne, delle protagoniste di questa storia collettiva, in gran parte anonima, perché “è la gente che fa la storia”.

Ricordo allora, tra le altre, l’opera meritoria del Comune di Gorla Maggiore che, con la pubblicazione dell’opuscolo “Donne per la libertà”, ha raccolto la testimonianza di 10 figure femminili della nostra zona. A questo proposito cito proprio un brano della testimonianza di Iole Tosi, lavoratrice e partigiana di Busto Arsizio: “Io lavoravo in maglieria, al Maglificio Formenti… Per recuperare delle matasse di lana per confezionare maglioni per i partigiani, lavoravamo fino alle dieci di sera in modo che fosse possibile, appena sceso il buio, ritrovarci nello scantinato dello stabilimento, dove con un espediente avevamo trovato il modo di sottrarre qualche chilo di lana alle commesse dell’esercito. Bagnavamo con un liquido speciale a base di solfato di rame matasse che l’esercito ci aveva inviato in modo che pesassero di più e così potevamo sottrarre quello che risultava eccedente”.

Ciao Iole, ciao a voi lavoratori e lavoratrici che avete saputo parteggiare nella quotidianità, non eroi ma uomini e donne, “popolo serrato attorno al monumento che si chiama, ora e sempre Resistenza”.

Elide Casati

(Con un grazie a Claudio Zanin
per i suggerimenti e gli spunti bibliografici)

[1] AA.VV., Donne per la libertà, Comune di Gorla Maggiore

[2] Bruna Bianchi, Enzo R. laforgia, Giuseppe Nigro, Mario Varalli, Lotte operaie e Resistenza in provincia di Varese, Istituto varesino “Luigi Ambrosoli” per la storia dell’Italia contemporanea e del movimento di liberazione

[3] Franco Giannantoni, Fascismo, guerra e società nella Repubblica Sociale Italiana. Varese 1943-1945, FrancoAngeli Storia

[4] Istituto Centrale di Statistica del regno d’Italia, VIII censimento generale della popolazione- 21 aprile 1936-XIV