Le foibe e il problema della memoria


Da quando nel 2004 è stato istituito il “Giorno del ricordo” delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata[1], la celebrazione pubblica della ricorrenza provoca veementi polemiche, raramente di natura storiografica, più spesso di carattere politico, mentre si moltiplicano le cerimonie che in tutt’Italia propongono una narrazione dei fatti parziale o addirittura distorta.

La storiografia ha infatti prodotto negli ultimi decenni una messe notevole di studi sulle foibe, ossia quelle cavità naturali del terreno della Venezia Giulia e dell’Istria in cui, perlopiù tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, furono gettati i corpi di alcune migliaia di italiani. Oggi possiamo dire che esistono ricerche di grande rigore scientifico e di riconosciuta serietà che hanno contribuito a offrire un quadro ben chiaro dei fatti[2]. È impensabile incontrare storici di professione che neghino l’esistenza delle foibe e chi lo fa generalmente si colloca nell’ambito della pubblicistica non scientifica; più varietà c’è sulla quantificazione delle vittime italiane (3-5.000 secondo le stime più attendibili)[3].

L’aspetto che più preoccupa è la tendenza di alcuni ambienti politici, riscontrata negli ultimi anni, a bollare come “negazionismo” o “riduzionismo” delle foibe ogni tentativo di problematizzazione e di approfondimento: se da un lato ci si può aspettare con rassegnazione che il discorso pubblico sia destinato alla semplificazione, se non banalizzazione, di ogni fenomeno complesso, dall’altro sono preoccupanti le ingerenze della politica nel lavoro della comunità scientifica, che dovrebbe poter avere la libertà di fare ricerca senza vincoli politici di alcun tipo[4]. Queste ingerenze di fatto sono il frutto di un’attenzione spasmodica della classe politica nei confronti delle ricadute pubbliche della memoria storica.

Maurice Halbwachs, che per primo studiò il concetto di memoria collettiva, ha chiarito come essa sia costruita in funzione del presente e degli interessi dei gruppi dominanti[5]. Non sorprende allora che l’ascesa nelle stanze del potere della destra ex missina, che in quanto erede diretta dell’esperienza fascista era stata esclusa dalla ricostruzione culturale e morale dell’Italia postbellica, abbia posto a partire dalla fine degli anni Novanta una sfida alla memoria collettiva antifascista (o alle memorie collettive, dato che un pluralismo, entro il paradigma resistenziale, c’è sempre stato). David Bidussa ha osservato come, almeno nei primi anni dopo l’istituzione del “Giorno della memoria” della Shoah[6], alle commemorazioni pubbliche della tragedia che investì gli ebrei europei e delle responsabilità italiane mancasse il “popolo della destra”, a segnalare una percezione di alterità rispetto a una memoria ritenuta non propria[7]. La ricerca di una legittimità storica di un partito che per decenni aveva vissuto ai margini passava dunque attraverso la valorizzazione di un passato proprio, spesso associandola all’erosione del passato altrui[8] o proponendo spericolate ricostruzioni storicamente infondate – come il ricorso alle categorie di foibe come di un “genocidio” degli italiani. La riscrittura del passato, magari in questo caso nell’illusione di costruire una “memoria condivisa”, non è peraltro una esclusiva della destra, dato che sul tema delle foibe anche da ambienti politici della sinistra si sono levate voci piuttosto ambigue[9]. Le foibe sono dunque diventate per molti il “trauma prescelto”[10] di una identità specificamente italiana, escludente, con tutti i rischi che ciò comporta nei rapporti con i popoli e le storie di questa regione di confine.

La riduzione delle foibe a problema nazionale italiano presenta molteplici criticità. A partire dalla scelta della data, il 10 febbraio, che non ricorda una vicenda specifica o simbolica della tragedia consumatasi, ma è quella della firma del trattato di pace di Parigi del 1947: con questa celebrazione il Parlamento ha aperto la strada almeno a una narrazione revisionista dell’esito della Seconda guerra mondiale. Ugualmente problematico è l’inserimento nel titolo della legge di istituzione del “Giorno del ricordo” di una vicenda in gran parte diversa da quella delle foibe, ossia l’esodo degli italiani che dopo la guerra, per scelta o perché costretti, lasciarono le province ex italiane cadute sotto la sovranità della Jugoslavia di Tito. Dopo il 1945, in verità, furono milioni gli europei che, per le più svariate ragioni, nell’Europa orientale si spostarono da un paese a un altro: si tratta di una storia dolorosa e tragica, che non fu una specificità italiana[11]. È immaginabile che, se, sul modello italiano, il Bundestag approvasse una legge che commemori l’esodo tedesco provocato dai polacchi all’indomani della sconfitta, qualche preoccupazione pervaderebbe le cancellerie del resto del mondo.

La ricostruzione “ufficiale” proposta dalla legge, inoltre, traccia una cornice che evidenzia una porzione molto precisa della vicenda storica – quella appunto che vede gli italiani come vittime –, senza sforzarsi di comprendere la totalità di una tragedia che non coinvolse soltanto gli italiani e che non si limitò alla Seconda guerra mondiale. Non è uno sfregio alle vittime italiane ricordare le vittime slovene e croate negli anni di occupazione italo-tedesca e prima ancora la brutale persecuzione dei cittadini italiani di origine slava dopo l’allargamento dei confini dell’Italia e, soprattutto, nel corso della lunga era fascista[12]. Ma nemmeno questo è sufficiente: le violenze, i nazionalismi, le guerre attraversarono questa zona per diversi decenni e sono di per sé fenomeni connaturati allo sviluppo del concetto di nazionalità nel corso dell’Ottocento. Su tale aspetto di lungo periodo della storia dei conflitti nella zona del confine orientale ha scritto un bel libro Raoul Pupo, Adriatico amarissimo, che ha ricostruito il progressivo scivolamento di queste terre dalla “stagione delle fiamme” di inizio Novecento alla “stagione delle stragi” del secondo conflitto mondiale[13]. A sua volta, del resto, la tensione di confine tra italiani, austriaci, sloveni, croati e ungheresi, è soltanto un aspetto di una più ampia tendenza dei confini eurasiatici a diventare incubatori dei conflitti che hanno insanguinato la storia più recente[14].

Il paradigma del vittimismo nazionalistico, cui si cerca di piegare la memoria delle vittime italiane delle foibe, non è solo parziale, ma anche pericoloso, perché è l’anticamera di ogni conflitto europeo anche recente[15]. Isolare la tragedia che ha investito gli italiani tra il 1943 e il 1945 non rende maggiore giustizia alle vittime delle foibe, ma finisce per trasformarle in uno strumento di contrapposizione alle altre vittime – quelle delle nazionalità “nemiche”, oppure i morti di altre tragedie vissute come non proprie.

Enrico Palumbo
(socio ANPI Olgiate Olona)


[1] L. 92/2004, Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati.

[2] Si vedano almeno i volumi (e le successive edizioni aggiornate) di G. Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Milano, Mondadori, 2002; J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009; R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Milano, Bruno Mondadori, 2003.

[3] R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, cit., pp. 26-30.

[4] E. Gobetti, E allora le foibe?, Roma-Bari, Laterza, 2020.

[5] M. Halbwachs, Les cadre sociaux de la mémoire, Paris, Alcan, 1925 ; Id., La mémoire collective, Paris, Presses universitaires de France, 1950.

[6] L. 211/2000, Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

[7] D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Torino, Einaudi, 2009, pp. 32-33.

[8] A. Höbel, La battaglia della memoria, in G. Aragno, A. Höbel, A. Kersevan, Fascismo e foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 11-19.

[9] F. Focardi, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Roma, Viella, 2021, pp. 219-222.

[10] V. Volkan, Bloodlines: from ethnic pride to ethnic terrorism, New York, Farrar, Strauss and Giroux, 1997, pp. 36-49.

[11] A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa (1853-1953), Bologna, Il Mulino, 2012.

[12] Su questo si rimanda all’accurata ricostruzione di Annamaria Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale (1918-1941), Roma-Bari, Laterza, 2011.

[13] R. Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Roma-Bari, Laterza, 2021. Si veda anche la mostra: https://confinepiulungo.it

[14] A.J. Rieber, The struggle for the Eurasian borderlands. From the rise of early modern empires to the end of the First World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2014.

[15] Si pensi al nazionalismo serbo celebrante la battaglia di Kosovo Polje del 1389 come innesco delle torsioni che hanno portato alle guerre nella Jugoslavia negli anni Novanta, in cui si sono manifestati i contrapposti nazionalismi; o più recentemente al ruolo dell’etnonazionalismo vittimistico russo nella guerra russo-ucraina.