Le pietre di inciampo


A una giovane studentessa che le chiedeva cosa possono fare, oggi, le ragazze e i ragazzi per far sì che la memoria non vada perduta, Liliana Segre ha replicato: «La risposta sei tu, qui».


Viviamo in un'epoca di passaggio, in cui anche coloro che furono i più giovani testimoni dell'orrore fascista e nazista stanno venendo a mancare. È la fine della cosiddetta “epoca del testimone”, un passaggio chiave nella cura della memoria, dato che - appunto - le voci e le parole dei testimoni, con tutta la loro forza, verranno a mancare. Non ci dobbiamo stupire, perciò, se proprio ora si affacciano con maggior seguito e con sempre maggiore spazio nel dibattito pubblico persone, movimenti e partiti che vogliono riscrivere o cancellare la storia, nel tentativo, più o meno esplicito, di ricollegarsi a una visione mitologica del fascismo, intrisa di luoghi comuni secondo cui «ha fatto anche cose buone…», «se escludiamo la persecuzione degli ebrei…», «se solo non avesse dato retta a Hitler…». Il tutto con la classica premessa non mantenuta: «non sono fascista ma…». Se tutte queste espressioni che tendono a minimizzare e a sottovalutare diventano luoghi comuni, il rischio è che sià già troppo tardi. «Non ci rendiamo più conto - scrive Stefano Bartezzaghi rispetto ai luoghi comuni (2022) - di quanto [...] costituiscano la trama del nostro pensiero, giusti o sbagliati che siano».


Quando tutto il mondo crede a una sciocchezza, la sciocchezza non diventa con ciò più vera: però causa effetti reali. Ne consegue che del luogo comune raramente può interessare la confutazione (il più delle volte vano esercizio di individualismo snobistico) quanto lo studio della sua “vita”: il modo in cui si è stabilito, i canali che lo hanno diffuso, il modo in cui individui vi hanno aderito.


Le pietre di inciampo create dall’artista Gunter Demnig si sono rivelate uno strumento particolarmente efficace per esercitare la memoria pubblica - e non ci sono ragioni per ritenere che lo diventino ancor di più negli anni a venire.

Le pietre sono dei semplici cubi di pietra rivestiti da una placca di ottone, sulla quale sono incise a mano le generalità della persona che si vuole ricordare: nome, cognome, luogo e data di nascita, l’eventuale luogo di deportazione e quindi la data di morte, se conosciuta. Vengono poste al di fuori dell’ultima residenza occupata liberamente dalla persona deportata. La loro localizzazione ci aiuta perciò a superare la distanza temporale - che inevitabilmente, col passare degli anni, aumenta sempre di più - con la vicinanza fisica. «Quella persona morta ad Auschwitz abitava proprio qui», ci comunica la pietra. E ci comunica che quella persona aveva un nome e un cognome che i nazifascisti volevano cancellare. Ci comunica che se anche il corpo di quella persona non è mai più stato ritrovato, ora c’è una comunità che “la riporta a casa”, nell’ultima sua casa: quella abitata prima che tutto precipitasse.

Demnig cura le pietre una ad una Le incisioni sono fatte a mano. È un lavoro artistico e artigianale, necessario - nel pensiero dell’artista - per allontanare la meccanizzazione dello sterminio nei campi.

Le pietre non coincidono con la loro posa: grazie a tutti i meccanismi che attivano, infatti, stimolano anche la discussione pubblica, invitando le comunità a riflettere su loro stesse e sul loro passato. Non a caso, non sempre l’accoglienza è stata positiva. Ci sono stati casi, in Italia e in Europa, in cui le pietre sono state vandalizzate, se non divelte, a testimonianza del fatto che abbiamo ancora molto lavoro da fare.


Stefano Catone
(socio ANPI Solbiate Olona ed editore)